La vignetta di Vauro sul manifesto
Un commento sulle proposte dei rettori al G8 - Ciò che più colpisce nel documento finale del G8u di Torino e di Sapporo è la banalità. Sorprende che intelligenze (supposte) tanto alte si riuniscano con tanta pomposità, protetti (o presi in ostaggio?) dalla polizia, per partorire una dichiarazione degna di una ricerca da liceali. Sorprende o, meglio, insospettisce. E, come si sa, a pensar male spesso ci si indovina.
Forse i rettori pretendono di entusiasmarci scrivendo che “la sostenibilità a livello umano, sociale e globale è una delle più importanti idee del 21 secolo” ? O che “I problemi di sostenibilità, inclusi i cambiamenti climatici, finora considerati prevalentemente come questioni scientifiche, sono diventati urgenti questioni politiche” ? O, ancora, che “le università devono impegnarsi a costruire nuovi approci allo sviluppo (sic) sostenibile nei loro programmi e nella ricerca” ?
A dire il vero a noi sembra che questo sia il minimo che non potevano non dire per non essere ridicoli, non certo il massimo che avevano l'obbligo di dire per essere (una volta tanto davvero) “magnifici”.
Trent'anni di ritardo sul Club di Roma e pure ancora fermi all'idea di eco-sostenibilità come paradigma di compatibilità fra la capacità di rigenerazione della natura e lo sfruttamento esponenziale delle sue risorse . Al di sotto della soglia del ridicolo, anziché no. Proprio non possiamo entusiasmarci per questo. Anzi, ci conferma che avevamo ragione ad alzare la testa e a gridare la nostra sana rabbia ed indignazione mentre loro si nascondevano dietro la polizia per non dire quello che avrebbero dovuto dire.
Invece che perdere tempo a leggere amenità come quelle citate, è più utile impiegarlo a capire perché sono state scritte, partendo da un documento che è tutto tranne che banale: il documento “Education for Innovative Societies in the 21st Century” (EIS), prodotto dai G8 a San Pietroburgo nel 2006 e alla base del Forum Mondiale, precursore dei G8u, organizzato a Trieste nel 2007 dal'ICTP . Allora un esponente dell'IPCC ricevette il formale divieto, da parte del direttore dell'ICTP, a partecipare ad una conferenza parallela organizzata dai movimenti in quanto troppo palesemente “non neutrale”; è interessante ricordarlo perché invece le università del G8u si propongono ai governi come partners ideali (si legga ricettori di fondi) proprio in quanto soggetti “neutrali ed obbiettivi”, riproponendo la favola della scienza neutrale che evidentemente serve esattamente a non dire e a non schierarsi (e quindi costringe noi a considerare una cortina di fumo anche le banalità di buon senso minimale – ancorché impropriamente declinato – disseminate nei documenti citati).
Nonostante la retorica che si sprecò sui media locali all'epoca del Forum di Trieste nel 2007 a proposito del fatto che la nostra sarebbe una "società basata sulla conoscenza", il documento preparatorio di quell'incontro ci restituisce un impianto ideologico e programmatico affatto diverso e che parte dalla consapevolezza che sono invece l'economia ed il mercato ad essere basati sulla conoscenza che, messa a profitto, è utilizzata come strumento di dominazione e controllo anziché come potenziamento della democrazia e della cittadinanza.
Niente che non si fosse capito e che il movimeno dell'Onda non abbia ben colto, ma i G8 ce lo porgevano scritto nero su bianco a partire dal' incipit di quel documento: “We will promote the global innovation society [..] by supporting modernization of education systems to become more relevant to the needs of a global knowledge-based economy” (punto 1); “Education, the enhancement of skills and the generation of new ideas are essential to the development of human capital and are key engines of economic growth, drivers of market productivity [..]” (punto 2).
Naturalmente le esigenze di un'economia basata sulla conoscenza richiedono una “strong protection of intellectual property rights” (punti 4, 8 e 9) e “[to] move technologies quickly from laboratory to the marketplace” (punti 5 e 6) in una cornice in cui si prevede di “leverage public expenditures strategically to attract private funding in R&D, including the education sector” (punto 7) sullo sfondo di una “university-based public-private partnership” fondata su “exchange of ideas and expertise” (punto 10).
Dal momento che le “ideas and expertises” dei privati sono protette e chiuse dalla “strong protection of intellectual property rights” evidentemente il flusso del supposto scambio è tutto a senso unico: una conoscenza prodotta sostanzialmente all'interno del corpo pubblico e grazie alla formazione pubblica (per di più probabilmente foretemente ri-plasmata nelle sue strategia di ricerca della partnership con i privati), ma i cui risultati - tramite la proprietà intellettuale e il trasferimento ai mercati – appartengono inesorabilmente alla sfera privata, e ai quali la società può accedere esclusivamente attraverso i meccanismi di mercato.
All'interno di un quadro attuale in cui le conoscenze specifiche (e in generale la capacità diffusa e comune di creare conoscenze e metterle in relazione) sono un nuovo motore della produzione di ricchezza che si affianca al, e potenzia il, “lavoro vivo”, la necessità cogente è di trasformare le università, oltre che in efficienti opifici, in dispositivi di controllo e privatizzazione (trasferimento) piuttosto che punti di accesso, condivisione e diffusione.
Questo è l'impianto ideologico che i rettori del G8u assumono esplicitamente a partire da Sapporo 2008 e che non ritengono di dover in alcun modo discutere, correggere o criticare. Ecco che i non detti pesano decisamente di più di ciò che di banalmente condivisibile è obbligatoriamente scritto. Come si può ritenere credibile il documento di Torino 2009 dove dice che i saperi sull'utilizzo efficiente delle risorse naturali dovrebbe essere resi accessibili a tutti (punto 1) se evidentemente tali saperi sono alla base del nuovo eco-compatibile “green business” di Obamiana ispirazione e quindi devono essere “strongly protected” e “quickly transferred to marketplace”?
Ovunque i documenti dei G8u confliggano apparentemente con il documento EIS dobbiamo concludere che prevalga quest'ultimo, essendo assunto dai primi ed essendo comunque di gran lunga il più performativo; e comunque tali occasioni di conflitto sono drammaticamente poche e la lieve genericità dei G8u cede il passo alla incalzante precisione del linguaggio in EIS.
È appassionante notare che dove i G8u (SSD, punto 3) si propongono il ruolo delle università come “increasingly critical” in ragione del loro essere “neutral and objective” contemporaneamente si precipitano a sostenere che per assicurare che le soluzioni alle sfide di sostenibilità siano “practically applicable and appropriate” è importante la collaborazione “with a range of stakeholders including civil society and the private sector”. Il fatto che l'appropriatezza di tali soluzioni o la loro applicabilità (da quale punto di vista?) debbano passare dalle forche caudine del profitto è una evidente dichiarazione di sudditanza al principio espresso in EIS per cui i bisogni della società tutta sono interpretati precipuamente dalle necessità del profitto privato (“private sector involvement [..] is one of the main keys to achieving an effective linkage between higher education and the needs of the global innovation society”).
Ed infine, i G8u a Torino sottolinenano la necessità di superare approcci esasperatamente mono-disciplinari e la frammentazione dei saperi (“reverse past tendencies toward mono-disciplinary approaches and fragmentation in education and research”, sezione II, punto 2) ma non spendono una parola per commentare il fatto che tutta la ricerca è costitutivamente organizzata per separare e parcellizzare i saperi, che il termometro della produttività e del merito dei ricercatori è quasi puramente aritmetico e legato al numero di pubblicazioni – il che spinge inesorabilmente ad una iperspecializzazione. Non una parola a proposito della natura dell'attività di ricerca in un quadro dominato dalla protezione intellettuale e dal trasferimento ai mercati.
I G8u apparentemente insistono sulla necessità di un “holistic approach” e di affiancare il “systemic thinking” al “disciplinary thinking”, ma l'evidenza è che stanno parlando delle università per le élites (alla cui costruzione assistiamo anche in Italia): “Universities have a critical role to play in educating future generations, disseminating information about sustainability, and particularly by training leaders” (SSD, punto 7).
Quale sia la qualità necessaria della formazione per tutti gli altri è evidente: saperi incapsulati in unità standardizzate da (ri)"produrre" in tempi determinati, veicolo di una disciplina mentale e personale isomorfa all'alienazione della catena di montaggio; più che ad alta formazione assistiamo ad un addestramento mediante somministrazione di pillole di conoscenze propedeutiche alla capacità produttiva piuttosto che alla "capacità di cittadinanza". Le università - penetrate dai privati che in cambio di pochi investimenti potranno determinare linee di ricerca, materie di insegnamento e docenti, mentre agli studenti è tolto ogni margine di autoformazione - diventeranno i dispositivi finali di disciplina e captazione della produzione di conoscenza per il profitto del mercato.
Se questa è neutralità, noi siamo ben felici di scegliere altro e di schierarci, come abbiamo fatto a Torino e come faremo senza arrenderci mai “in questo paese di codardi”.